RAFFAELE MATTIOLI

(1895-1973)

di Giacomo D'Angelo


 

Nel salone della sede di piazza della Scala, ibrido di un arredo art nouveau e rococò da Kùrsaal termale, muto del quotidiano brusio delle operazioni agli sportelli, i piccoli e grandi azionisti della Banca Commerciale Italiana ascoltarono 22 aprile 1972, in un silenzio sacrale, l'ultima relazione annuale del loro Pref dente: Raffaele Mattioli. Il taglio aridamente tecnico, l'assenza delle suggestioni: letterarie che costellavano quelle degli anni precedenti, e la chiusura convenzionale (con l'invito ad «operare con paziente fermezza e sereno coraggio nell'interesse nostro e -ripetiamo- dell'economia del Paese») non avevano nulla del commiato definitivo. Ma quando Mattioli terminò di leggere, un'ovazione lo accolse calorosamente. E fu la cerimonia degli addii. A chi gli chiedeva di accettare presidenza onoraria, don Raffaele, grandissimo attore dalle mille parti in commedia, rispose alla sua inimitabile maniera, sferzante di ironia: «A me questi, posizioni da nicchia non si confanno. Del resto guardatemi in faccia, vi sembro tipo da venir imbalsamato? Cari miei, l'assemblea è femmina e io sono maschio. E il maschio può dire alla femmina, guarda che ormai sono valido dalla cintola in su.. .E poi gli anni del rammollimento li voglio dedicare soltanto a me stesso: Dinanzi alla palpabile commozione della piccola folla, continuò a ciglio asciutti «Facciamo presto, non datemi medaglie. Anche il mio funerale deve essere fatto alle cinque e mezzo del mattino, il più grosso sacrificio per uno che fa così fatica ad alzarsi. Non ci sarà nessuno, allora, non intoniamo canti, adesso, neppure Mozart». Un attimo di nostalgia per il sindacalista: «Quest'anno non ci sarò per il rinnovo del contratto...». E infine la fuga verso l'ufficio al secondo piano, con la «solitudine tremenda» nell'animo, come quella manzoniana dell'Innominate Ad un amico che in una telefonata gli diceva che nell'assemblea era stato bravissimo, rispose: «Sì, è vero, stamattina sono stato abbastanza bravo, ma non credere che queste cose mi fioriscano in mano, adesso sono stanco e ho voglia solo di pensare».
Dopo 47 anni, il più grande (e famoso) banchiere italiano abbandonava la scena che aveva governato nell'Italia fascista e poi repubblicana, nella più totale indipendenza, praticando «l'unica politica di tenere la politica fuori della banca».
Raffaele Mattioli nasce il 20 marzo 1895 a Vasto, «terra dei grandi feudi», una località sul mare Adriatico lontana dai grandi centri metropolitani, descritta disinvoltamente da biografi distratti «un paese di pecore e ricotte». «Abruzzese della marina», piacerà a Mattioli chiamarsi, per distinguersi amichevolmente da quelli della «montagna» come Benedetto Croce. I genitori, Cesario e Angiolina Tessitore di Gissi (ricordata da Riccardo Bacchelli in un suo scritto come donna di spirito e di sensibilità), commercianti, cattolici, di simpatie «regnicole» ma non borboniche, chiamano Raffaele il loro secondogenito, in omaggio allo zio paterno, «don Raffaele senior», che vive a Napoli ed è Direttore della Navigazione Generale Italiana. Studia all'Istituto Tecnico-Commerciale di Chieti e a Genova, dove, sorprendendo il parentado, si iscrive alla Scuola Superiore di Commercio. Qualche tempo dopo spiegherà quella scelta: «L'economia è contemporaneamente storia e filosofia, e la sua filosofia, qualche volta astrusa, è sempre connessa alle miserie e alle speranze umane». Il 24 maggio 1915 parte come volontario per la Grande Guerra, «sportivamente, io che non so neanche andare in bicicletta». Ufficiale aggregato allo Stato Maggiore, combatte valorosamente, come il suo corregionale, Cesare De Lollis, illustre francesista, arruolatosi a 53 anni dopo aver osteggiato l'immane conflitto da posizioni neutraliste. Nel 1917 è ferito da una bomba al braccio, ma resta al fronte, viene decorato da due medaglie al valore ed è a Trieste per celebrare la vittoria. S'accende d'amore per una fanciulla triestina, Emilia Tami, la sposa e ha un figlio che chiama Giuliano cedendo al ricatto sentimentale del luogo,. Amareggiato come altri reduci per la «vittoria mutilata» dopo Versailles, segue Gabriele D'Annunzio a Fiume, con un incarico non lieve: tenere i contatti tra il Comandante e Mussolini, che dirige a Milano il «Popolo d'Italia». A Fiume conosce Ludovico Toeplitz, ministro degli Esteri della Reggenza del Carnaro, intimo di D'Annunzio e figlio di Giuseppe, amministratore delegato della Comit. Presto si stanca del clima ribellistico e parolaio dell'avventura fiumana e abbandona il Comandante che lo lapida con parole roventi: «Odio i ragionatori che hanno il cervello incallito come il ginocchio del dromedario nel deserto». Torna a Genova e si laurea con una tesi sulla stabilizzazione monetaria, del tutto innovativa in un momento di inflazione galoppante. La moglie, Emilia, muore nell'ospedale di Pavia a causa della «spagnola», la terribile epidemia che miete milioni di vittime in Europa. Diviene assistente di Attilio Cabiati, docente di economia politica a Genova e all'Università Bocconi di Milano, che gli propone di occuparsi della «Rivista bancaria», organo ufficiale dell'Associazione Bancaria Italiana («Ero come un critico musicale di second'ordine» -racconterà al giornalista americano, Joseph Wechsberg, nel 1966-«Beh, oggi faccio il banchiere e io stesso devo scrivere ed eseguire quella musica finanziaria ch'ero solito criticare»). Conosce Luigi Einaudi e si lega per l'amicizia di una vita con Piero Sraffa, figlio di Angelo, Rettore della Bocconi, aiutandolo nella tesi di laurea. Coltiva rapporti amichevoli anche con Paolo Vita-Finzi e Carlo Rosselli, conosce Piero Gobetti, Antonio Gramsci, Filippo Turati, Anna Kuliscioff, Claudio Treves. A 27 anni viene nominato, in modo non plebiscitario, Segretario generale alla Camera di Commercio di Milano. Nel 1925 si risposa con Lucia Monti, imparentata con i Solmi, «brillante famiglia della borghesia intellettuale ambrosiana» da cui ha tre figli: Maurizio, Stefano e Letizia, futura scrittrice che si firmerà con il nom de plume di Letizia Fortini. A 30 anni viene assunto come Segretario particolare da Toeplitz alla Comit, dove rimarrà fino al '72, percorrendo le tappe di una carriera vertiginosa: direttore generale, amministratore delegato, presidente. La segreteria di cui entra a far parte Mattioli è detta dei «4 M»: con lui infatti la compongono Giovanni Malagodi, Enrico Marchesano, Cesare Merzagora. L'assunzione di Mattioli è rimasta impigliata in un ambiguo viluppo di pettegolezzi e leggende, ma è certo che grande era la stima che per lui nutriva Giuseppe Toeplitz, successore di Otto Joel, il fondatore della Comit con Federico Weil. Di Joel e di Toeplitz, entrambi ebrei, dirà: «L'uno e l'altro furono grandi italiani, pur se l'ignara casualità dell'anagrafe li aveva fatti nascere in terra straniera. La banca fu lo strumento e il veicolo della loro italianità, fedeli al principio che la banca deve attingere forza e prosperità nel dare forza al paese. Dal loro esempio ho tratto rispetto per quello che si fa, la coscienza morale della professione».
missione economica fanno parte Quinto Quintieri, ex ministro delle Finanze nell'ultimo governo Badoglio, l'ambasciatore Egidio Ortona ed Enrico Cuccia, il futuro presidente di Mediobanca, proposto dallo stesso Mattioli. «Era previsto che la missione si sarebbe trattenuta negli Stati Uniti 15 giorni», ma si protrae per quattro mesi, con spese di soggiorno affrontate con un prestito che Mattioli ottiene da una banca americana. In un clima difficile e incerto, mentre il governo Bonomi si dimetteva, gli italiani erano guardati addirittura con sufficienza e fastidio, ma il banchiere abruzzese s'impone all'attenzione ostile dei banchieri di Wall Street. Dapprima un «cane in chiesa»18 e poi uno dei «cinque cervelli» della corporazione monetaria della Banca Mondiale (Rothschild, Abs, Harcourt, Mayer). Conquistati dal fascino, dal calore umano, dall'abilità negoziale, dalla personalità spumeggiante di eclettismo, gli americani, pur avari nel concedere aiuti, non gli risparmiano elogi: «thefabulous Italian bunker» è quello che li riassume. A Don Raffaele mancarono in quei giorni il suo barbiere pugliese, Onofrio, un poeta amico con cui parlare di Manzoni ma non i peperoncini rossi che Gaetano Afeltra gli faceva arrivare dalla sua Amalfi, «lucidi come maioliche». Dopo l'esperienza di Washington, inizia una serie di missioni diplomatiche all'estero, anche nei paesi comunisti, che gli valgono cariche prestigiose, quale riconoscimento del suo valore internazionale: vicepresidente della Banque Francoise et Italienne pour l'Amérique du Sud e della Banca Svizzera Italiana, membro della Royal Economie Society di Londra e dell''American Association di Chicago, consulente dell'International Finance Corporation di Washington.
Mette a disposizione unmiliardo di lire per la costituzione dell'ENI. Il beneficiario, Enrico Mattei, presidente dell'ENI, che finirà misteriosamente assassinato, gli manifesterà sempre gratitudine, inviandogli spesso salmoni e trote, che Mattioli ricambiava con ringraziamenti in rima. Rimase tra loro l'ombra di una contenuta confidenza se Mattei confessava: «un gran borghese, uno studioso, ed io sono un semplice ragioniere...».
Poco noto alla maggioranza degli Italiani, fedelissimo a un culto riservato della sua immagine, testardamente riluttante nel far circolare proprie fotografie (gli archivi dei giornali non ne possedevano), in anni non ancora mediatizzati, è al centro nel '62 di un'ondata di popolarità quando partecipa a un dibattito televisivo, nell'unica rete della RAI, sulla nazionalizzazione dell'energia elettrica. All'ingegner Vittorio De Biasi, presidente dell'Associazione degli elettrici (Anidel), che annuncia con toni da becchino catastrofi «sovietiche», Mattioli, vivacissimo e pungente, obietta: «Anch'io non sono d'accordo con le nazionalizzazioni, ma non credo ai cataclismi. Mi preoccupa il fatto che a voi imprenditori cadranno addosso un numero enorme di miliardi e non saprete che farne». E, puntando lo sguardo divertito verso il suo interlocutore, conclude: «Perciò, leva su, vinci l'ambascia con l'animo di chi vince una battaglia». Era una frecciata ai «baroni delle rendite» che lui non stimava particolarmente (con l'eccezione di Angelo Costa), se aveva definito gli imprenditori «senescenti minorenni» cui affidare la «toga virile». Secondo Guido Carli, che si celava dietro lo pseudonimo keynesiano di Bancor, Mattioli «non ha mai nutrito per loro una stima eccessiva; li ha giudicati, nella maggior parte dei casi, impari al compito gravoso che avrebbero dovuto assolvere in un paese complesso come il nostro; impari per cultura, per fantasia e per coraggio». Per Mattioli le imprese andavano assistite nelle loro necessità di credito («...la banca è come la cantina di Auerbach dove si può scegliere tra sciampagna, Tokai, Borgogna, Reno...»), ma concedendo fidi su valutazioni razionali, evitando il «credito agevolato» («...chi reclama un taglio negli interessi da pagare, si conferma ipso facto fuori del mercato...»). Le imprese non devono contare su «favori, assegnazioni e regali» ma sulla loro autonoma «capacità di reddito»: era il suo tema ricorrente. La Comit di Mattioli, il cui «mondo non è mai stato quello della burocrazia ma quello dell'immaginazione»24, ha sempre sostenuto le imprese capaci di realizzare il profitto («una funzione socialmente necessaria») in un regime di concorrenzialità. Questo il motivo in virtù del quale «le posizioni di rendita non hanno mai trovato né la su adesione intellettuale né l'appoggio creditizio del suo istituto». Era scettico verso la politica degli incentivi per il Mezzogiorno, sostanzialmente assistenziale, rifiutava la visione da eterno pianto greco di molti meridionalisti e fece sempre il possibile per contrastare l'impoverimento culturale e imprenditoriale del Sud. Accettava con riserve la programmazione purché non fosse «un corsetto ortopedico, sia pure modellato sul torso dell'Apollo del Belvedere» (Relazione Comit, 1964).
Mattioli, keynesiano «bordeggiante a sinistra» secondo Montale, non iden¬tificava il suo liberismo in quello economico perché aveva «della funzione dello  Stato una concezione assai aperta. Interrogato dalla commissione economica della Costituzione sul motivo che lo spingeva a considerare con favore un «controllo del credito» da parte dello Stato, rispose: «Io mi auguro che possa instaurarsi appieno il così detto controllo sociale degli affari, sempreché sia condotto badando alla sostanza più che al travestimento per il palcoscenico».
Il 28 maggio 1947, nei tempi in cui Winston Churchill coniò la fortunata definizione del mondo diviso da una «cortina di ferro», in piena crisi politica, quando Alcide De Gasperi stava per estromettere i partiti di sinistra dal governo, Mattioli, poco favorevole alla rottura, scrive una lunga lettera a Togliatti. Siamo malati da tempo - scrive Mattioli -, la malattia «è il disfacimento della moneta e del credito», occorre «determinare un nuovo corso che può salvare l'essenziale e ricondurci al tempo della salute». Per salute bisognava intendere «la restaurazione di quelle condizioni minime del vivere civile e di quel minimo di margine economico, senza il quale non si può pensare né a conservare svecchiandolo quel che c'è da conservare, né a innovare quel che c'è da innovare, anche da molto profondamente e radicalmente innovare». «La 'sana finanza', oggi, in Italia, non è un interesse 'reazionario'... è un interesse nazionale -di tutta la nazione- e se a qualcuno deve importare più che ad altri è proprio a quei ceti a cui più particolarmente il Suo partito si dirige, e che più devono tenere a che, finalmente, dopo i lunghi anni di trattenimenti vari sulla loro pelle, lo Stato sia amministrato in modo da tutelare le loro riserve ed esigenze vitali, almeno nella modesta misura in cui la realtà italiana e mondiale lo consente». Con toni cortesi, punteggiati di interlocuzioni rispettose («non me ne voglia», «mi perdoni se...», «come Ella sa»), senza venature di arroganza, il banchiere pubblico, Raffaele Mattioli, offriva i tesori della sua esperienza e della sua competenza in difesa dei ceti meno abbienti all'al-lora leader del Partito comunista .
Giorgio Amendola, che sin dal '31 aveva stabilito rapporti con Mattioli (prodigo ai aiuti verso la sua famiglia;, e Palmiro Togliatti, conosciuto da Mattioli attraverso Franco Rodano - il saggista cattocomunista che da consigliere di Enrico Berlinguer sarà tra gli ispiratori del «compromesso storico» - invitano più volte Mattioli a candidarsi per il Senato nella Sinistra Indipendente, ma la risposta è sempre negativa. Il banchiere, inflessibile nella sua autonomia, rifiuta ogni volta la proposta «perché credeva di compiere un lavoro più utile per il Paese restando al posto che occupava con
tanta autorità». «Mi dispiace di non poterlo chiamare compagno», fu una battuta di Togliatti. Non da meno De Gasperi, che, secondo un aneddoto verosimile, «avrebbe offerto a Mattioli un dicastero a sua scelta. «Pubblica Istruzione con budget quadruplicato», pare rispondesse l'interpellato. Con l'esito che si può immaginare».
Era comunista Mattioli? Così rispondeva Giovanni Malagodi: «Se c'è una cosa che Mattioli non è mai stato è d'annunziano, quindi non è stato fascista, quindi non è stato comunista, quindi non è stato nulla che significasse retorica, partito preso, teoria preconcetta e così vìa». Mattioli dal canto suo diceva: «Sono un liberale con una tale dose di anarchia che mi consente di non esser necessariamente democratico. Sono un conservatore ma con una tale dose di senso storico che mi consente di non essere necessariamente anticomunista»
Fu il dominus assoluto della Comit, circondato di un'aura reverenziale, un padre padrone («padre Giuseppe» per Montanelli) senza il cipiglio autoritario del padrone ma con il carisma autorevole del pater familias. Non era un profeta disarmato. Da esperto navigatore sapeva combattere con stile e a fronte alta ì tanti nemici annidati nel potere politico, come l'ambasciatore statunitense, Clara Booth Luce, convinta maccartista, che congiurò contro di lui per scalzarlo. Fu lo stesso Mario Sceiba, ministro degli Interni e poi presidente del Consiglio, a darne testimonianza. Anticonformista e antiretorico, aristocratico nei gusti e nelle scelte di vita, una «persona dalla vitalità radiosa»32, eccentrico negli aspetti quotidiani: le volute azzurrine delle sigarette Xanthia, Sobranie o Davidoff in cui era perennemente avvolto; un civettuolo cappello a larghe tese; la fobia dei malanni, che condivideva con un altro illustre abruzzese, Panfilo Gentile; una vecchia Appia per fare il breve tragitto da via Manzoni al portone dì via case Rotte, oggi Largo Mattioli. Era «ondoyant et divers», come il Montaigne che sovente citava. Non ebbe l'ossessione nevrotica del potere, «perché amava piuttosto ispirarlo». Di Giovanni Giolitti aveva detto: «Non aveva vanità di potere, era soltanto uno che pensava. Io ritengo che il gusto per il potere non l'abbia mai sentito. L'autorità non è qualcosa che emana dal fatto di esercitarla, ma dal seguire la voce delle cose, cercando di capire che cosa sta succedendo». In questo giudizio, raccolto da Corrado Stajano, si può ravvisare la concezione della vita pubblica di un uomo che - secondo Giorgio Amendola - pensava con la sua testa, non cercava compiacenti ed equivoci consensi, sapeva di poter dire a tutti, con la massima franchezza, il suo pensiero, per severo e critico che fosse».
Non si atteggiava ad esperto di banca, sbertucciava il linguaggio astruso degli econometristi e quello «incomprensibile» dei politici («Quanti deputati sfogliano il bilancio dello Stato? Dieci, venti, venticinque, come i lettori di don Lisander»), ripeteva che la lettura di un romanzo di Balzac era più utile di un trattato di economia e che tra i bilanci e la poesia esistono parentele: entrambe sono opere di fantasia. E aggiungeva: «Stendhal diceva che un buon filosofo può sempre diventare un buon banchiere». Aveva detto anche: «Il bilancio è un fatto politico, la risposta alla domanda 'chi paga' riguarda il fondo della politica...». Politica e storia: il tormento e la ragione di una vita. Che tornava nelle sue riflessioni, quando negli ultimi giorni attendeva ad uno studio su don Ferrante, un uomo «al quale non piaceva né comandare né ubbidire» (un personaggio manzoniano prediletto anche da Antonello Gerbi che così firmava i suoi elzeviri sul quotidiano social-riformista «La Giustizia») «Ma cos'è mai la storia, diceva spesso don Ferrante, senza la politica? Una guida che cammina, cammina, con nessuno dietro che impari la strada, e per conseguenza butta via i suoi passi; come la politica senza la storia, è uno che cammina senza una guida».
Le sue relazioni annuali agli azionisti (con Antonello Gerbi quale ghost writer) erano partiture musicali di scienza finanziaria e di scrittura, nitide nello stile e originali nelle calzanti citazioni storico-letterarie, attese da un filologo come Gianfranco Contini («Un Galiani aggiornato pareva reggere la penna che vergava quei capolavori di spirito, dove perfino il non tecnico stava, o s'illudeva, a suo agio»), da un artista cosmopolita come Alberto Savinio", da Giovanni Arpino. «Intonare il Novus ordo sarebbe certamente prematuro. Ma non è dubbio che l'aria è cambiata. Gli umori economici sono meno atrabiliari. Una bava di vento increspa le vele. Nunziatrice dell'alba già spira una brezza leggera leggera»: è l'incipit della relazione del 1965.
La vita straordinaria di Raffaele Mattioli non si dispiega soltanto nella guida quarantennale della Comit (che lui pronunciava con l'accento sulla i), nell'invenzione di istituzioni finanziarie (IRI, Mediobanca), nell'attività multiforme di banchiere «tra i più importanti del secolo» (così Joseph Wechsberg in un best-seller del '72), «Le plus grand banquier italien depuis Laurent de Médicis» (fu il titolo su «Le Monde» dopo la sua morte). La sua leggenda di «uomo di lettere e di cifre» (la definizione è di Croce) è affidata alle opere create e sostenute come «grande impresario di cultura, un po' alla Vieusseux, con respiro europeo», «fomentatore di cultura umanistica su scala rinascimentale». Fu la «passione predominante» verso i libri a farne un editore, un amico e ispiratore di editori, un collezionista. Rifiutava però l'etichetta di bibliofilo. Lettore voracissimo, dotato di una memoria d'elefante41 e di una mostruosa capacità di lavoro, alla maniera degli umanisti eruditi come Ludovico Antonio Muratori, considerava «bibliofili puri», anzi «filatelici», «coloro che, non leggendo, trasformano in mania di possesso la loro passione». Mattioli i libri li collezionava, in gara con Luigi Einaudi per entrare in possesso di preziose edizioni di fisiocrati (come ha raccontato Wando Aldrovandi, il libraio milanese della Einaudi, sempre incerto se avvertire l'uno o l'altro quando scovava un'ambita editio princeps di Ricardo o Adam Smith), o naufragando in un mare di in-folio, in-quarto, ottavi e dodicesimi delle librerie parigine dei leggendari Bernstein, Lucien Scheler, Galanti, con il suo compagno di scorribande librarie, Alberto Vigevani, libraio antiquario, editore de II Polifilo, scrittore elegante, di atmosfere moraviane, spruzzate di echi proustiani. Ma, soprattutto, li leggeva, li annotava fino a notte inoltrata tanto da far esclamare a Benedetto Croce, dapprima abruzzesemente diffidente verso il conterraneo: «Mattioli dice di aver letto molti libri e li ha letti davvero!». La pratica dell'editoria fu precoce in Mattioli e lo accompagnò per tutta la vita, dopo un giovanile incontro con Piero Gobetti, anch'egli fervido editore. Dopo l'apprendistato alla «Rivista Bancaria», è con «La Cultura» di Cesare De Lollis che s'impegna per la prima volta nell'editorìa, sostenendo Giulio Einaudi quando raccoglierà l'eredità di quella rivista soppressa dal fascismo e suggerendogli il motto latino che campeggia nelle edizioni dello Struzzo: «Spiritus durissima coquit».
«Intenditore eccellente di tutto quanto concerne stampa e carte» - secondo il giudizio di Riccardo Bacchelli -, fu da questi fatto incontrare con Giulio Preda, maestro e caposcuola nell'arte della stampa, che incoraggia a pubblicare quattro raffinate edizioni di volumi della «Raccolta poetica Preda» (dedicati a Ungaretti, Palazzeschi, Riccardo Balsamo-Crivelli e Bacchelli) e gli affida il progetto, interrotto dalla guerra, di iniziare una collezione di classici italiani, ad imitazione della Plèiade francese, nel formato, nella legatura flessibile e nella finissima carta olandese, detta «bibbia» o «india». Aveva un amore fisico per la carta, mentre «la sola carta stampata che non fosse di suo gusto era quella delle banconote che non voleva moltiplicare in misura tale da incoraggiare l'inflazione che aborriva. Tornava così, da umanista, banchiere, o, come meglio si dovrebbe dire, grand commis d'Etat». Faceva nascere libri per piacere disinteressato: «Era notorio che questo mercante di danaro non portava danaro addosso; e, realizzato uno dei suoi infiniti libri, magari una gioia non brochée odorosa della miglior carta, poco si curava di farlo diffondere, pago che esistesse».
Dagli anni Venti in poi non c'è impresa o evento editoriale e artistico o ri¬guardante un bene culturale che questo instancabile suscitatore di idee e di energie in campi diversi non abbia concepito, promosso, aiutato e salvaguardato. La nuova edizione critica del Dialogue sur le commerce des bleds dell'abate Galiani, le rime del Cavalcanti, i tre volumi dei Disegni del Rinascimento di Bernard Berenson, la ristampa di Carlo Porta commentato da Dante Isella e illustrato da Renato Guttuso, «qualunque grossa iniziativa editoriale, insomma, fiorisse in Italia, si veniva presto o tardi a scoprire che dietro c'era la mente, lo spirito, la volontà di Raffaele Mattioli». Senza ostentazione, con signorile riservatezza, smorzando lo zelo degli adulatori (ne aveva, ovviamente, un esercito, a cominciare dal più zuccheroso, l'abruzzese Giovanni Titta Rosa, consapevole di fare quello che era utile per il suo Paese. Nel 1925 finanzia «La Fiera Letteraria» di Umberto Fracchia e di Giovanni Titta Rosa. Poi è la volta di «Nuova Europa», dove scrivevano i Pietro Pancrazi, Guido De Ruggero e Morra di Lariano e delle due serie dello «Spettatore Italiano», dirette da Raimondo Craveri ed Elena Croce. Nel '40 crea il Centro Studi Manzoniani nella Casa Manzoni di via Morone, situata «nel cuore del carciofo», confinante con la sua residenza. Intorno al '50 coinvolge Alberto Vigevani e Dante Isella nella pubblicazione dell'edizione integrale delle Note azzurre di Carlo Dossi, ma le fa distruggere constatando che rigurgitano di battute urticanti e di aneddoti piccanti su personaggi milanesi, i cui discendenti sono ancora vivi e suoi amici o clienti della banca. Il libro, curato impeccabilmente da Dante Isella, uscirà nel 1964 per Adelphi, espurgato di dodici «note», poi accolte in un'edizione francese e in un numero del 2002 della rivista «Il Caffè Illustrato», diretta da Valter Pedullà. Il 21 dicembre del '57, viene assegnato a Carlo Emilio Gadda l'unica edizione del Premio degli Editori Italiani, voluto da Emilio Cecchi e da Raffaele Mattioli per riparare alla mancata assegnazione all'autore del Pasticciaccio del Premio Marzotto di quell'anno. Nel 1966 convince Roberto Longhi a istituire una Fondazione per preservare la biblioteca e la fototeca del grande critico d'arte. Nel '70 dona alla Biblioteca Sormani di Milano il Fondo Stendhaliano-Bucci, costituito dai libri dello scrittore francese, provenienti da Civitavecchia. Realizza finalmente l'ambizione di divenire editore in proprio acquistando la casa editrice del napoletano Riccardo Ricciardi, trasferendone la sede a Milano e finanziando la neonata Stamperia Valdonega di Giovanni Mardersteig, un tipografo di eccellenza artistica, fondatore della gloriosa Officina Bodoni, chiamato nel '27 da Arnoldo Mondadori per stampare l'Opera omnia di D'Annunzio. Esce nel '51 il primo volume della collana, «La Letteratura italiana, storia e testi», diretta da lui stesso con il filologo Alfredo Schiaffini e il critico Pietro Pancrazi e, in un secondo tempo, con l'italianista Natalino Sapegno. Si tratta di un'antologia di brani dell'opera di Benedetto Croce, curata dallo stesso autore, che suggella l'affinità elettiva e il sodalizio operoso fra i due corregionali,
la cui stima reciproca culminerà nella dedica di Croce delle sue Indagini su Hegel e nuovi schiarimenti a Mattioli, considerato «quasi un continuatore di quei fiorentini banchieri-letterati quattrocenteschi, di cui fu esponente il magnifico Lorenzo». La collana dei volumi ricciardiani è un'impresa storica che, nelle parole di presentazione di Mattioli, aveva il fine di ospitare i grandi autori e tenere lontani «quei 'mediocri' che Orazio respingeva dal cielo, dalla terra e dalle librerie», ma, soprattutto, nel 'canone' mattioliano, lo spirito dell'opera era di «ritrovarsi e vivere in quella tradizione umanistica che è la nostra tradizione di libertà». E passato alla leggenda il dialoghetto tra Mattioli e Palmiro Togliatti quando questi gli chiese: «Ma a che serve oggi una collana di classici?». La risposta di Mattioli fu: «Io ho costruito un muro. Finché voi non avete digerito i libri di questo muro non potrete fare neppure un saltino così». Il catalogo della collana, che ha superato i novanta volumi, registra il Gotha della cultura letteraria e filologica, da Gianfranco Contini a Eugenio Garin, Mario Fubini, Giovanni Getto, Raffaele Spongano, Antonio Viscardi, Francesco Flora, Giovanni Aquilecchia, Romano Amerio, Attilio Momigliano, Carlo Muscetta, Norberto Bobbio, Ezio Raimondi, Mario Bonfantini, Ettore Bonora, Giovanni Pozzi, Cesare Segre, Franca Ageno, D'Arco Silvio Avalle, Carlo Salinari, Emilio Cecchi, Goffredo Bellonci, don Giuseppe De Luca. Mattioli sceglieva i testi con i curatori, li consigliava nel loro lavoro, se era il caso li correggeva, leggeva manoscritti e bozze di stampa, scriveva,telefonava, in continuo contatto con i collaboratori e la tipografia». Tra i collaboratori di cui si avvalse, Sandro Sinigaglia, un poeta dalla «musa trasgressiva», espressionista e barocco, stimato da Gianfranco Contini. La Ricciardi, ereditata dal figlio di Mattioli, Maurizio, acquisita da Mondadori nel 1996 e poi, dal 1999, affidata alla gestione della Einaudi, è passata di recente nella proprietà dell'Istituto dell'Enciclopedia italiana. Il suo direttore, Cesare Segre, ha espresso sul «Corriere della Sera» il timore che eventuali modifiche al disegno originale potrebbero «deteriorare e sconciare un edificio monumentale».
«Eminenza tutt'altro che grigia dell'editoria italiana degli anni che vanno" dal 1930 alla sua morte, nel 1973»56, Mattioli per molti anni fu prodigo di consigli per Arnoldo Mondadori e per Angelo Rizzoli, sostenne Federico Gentile della Sansoni, aiutò inizialmente e soccorse in due emergenze Giulio Einaudi, che nel suo autobiografico Frammenti di memoria ha scritto: «Di tutti i banchieri a cui mi sono rivolto per aiuto o per consiglio, uno fu grande: Raffaele Mattioli... qui voglio dare testimonianza che senza il suo fraterno aiuto e consiglio la casa editrice non avrebbe forse compiuto il mezzo secolo di vita».
Per l'Electa concepì e finanziò la grande collana dei Musei Civici milanesi. Aiutò Scheiwiller, il Polifilo di Alberto Vigevani e l'Adelphi di Luciano Foà. Si occupò del catalogo degli incunaboli dell'Ambrosiana e curò l'inventario del patrimonio artistico di Milano. Fu nell'aprile del '46 tra i fondatori, con il filosofo Antonio Banfi ed Elio Vittorini, della Casa della Cultura di Milano. Innumerevoli gli interventi a favore di periodici famosi («Il Mondo» di Mario Pannunzio, la «Rivista trimestrale» di Franco Rodano e dell'economista abruzzese Claudio Napoleoni) e di premi letterari: Orio Vergani, patron del Bagutta, ricorda nel diario postumo il «soccorso» di Mattioli. Intervenne con un prestito a fondo perduto e l'avallo di un altro prestito dal Banco di Santo Spirito per le Edizioni di Storia e Letteratura del suo amico, don Giuseppe De Luca (nell'avvertenza del suo Breviario di ecdotica, Gianfranco Contini indicherà in Mattioli e De Luca «due motori della cultura del secolo»), che scriverà al cardinale Montini di essere stato salvato da «uomini e istituzioni del laicato, non sempre nostri». Nel '52, dopo la morte di Benedetto Croce, Mattioli assunse la direzione dell'Istituto per gli Studi Storici di Napoli, salvando il grande patrimonio crociano. Nei disastri delle alluvioni a Firenze e a Venezia, fu tra i primi a intervenire concretamente e a sollecitare un Fondo internazionale. Per la sua mostruosa capacità di lavoro e per la generosità dell'impegno verso il salvataggio dei beni culturali presenta aspetti similari ad un D'Annunzio poco conosciuto. Anche quest'ultimo, «faticon nazionale», fu protoambientalista, appassionato e pugnace difensore di bellezze artistiche minacciate dall'incuria e dal «vento di barbarie» di speculatori senza scrupoli (le ville gentilizie di Roma, i giganteschi cipressi ludovisii, i lauri e i roseti di Villa Sciarra, l'Abazia di San Clemente a Casauria, il Cenacolo vinciano, le torri di Bologna, le mura di Lucca), critico degli orrori architettonici (la facciata del Teatro nazionale, l'Altare della Patria, «un masso di creta tutto a fessure, a rovine, a scoscendimenti, a frantumi orribili...», il progetto di una galleria fra il Battistero e San Lorenzo a Firenze).
È divenuto un luogo comune parlare del mecenatismo di Raffaele Mattioli. Da ultimo, Gian Carlo Ferretti scrive di Mattioli come del «vero e ultimo mecenate delle lettere italiane». Ma già Giulio Einaudi aveva precisato, pur ammettendo che Mattioli «può essere facilmente paragonato col banchiere Mecenate», che «non fu mecenate perché non chiese mai contropartite all'arte e alla cultura, ma le spronò sempre alla ricerca, all'approfondimento, e tese a liberarle d'ogni forma di servilismo». Certamente Mattioli protesse gli intellettuali, ma «nello stile dei più illuminati Signori dell'Italia dei secoli d'oro, senza gli sfarzi e le piaggerie di allora». «In verità - ha scritto Stajano - non è mai stato un mecenate e non ha avuto separatezze in quel che ha fatto: è stato banchiere (nel suo modo) ed è stato insieme editore (nel suo modo), ma facendo sempre i conti, umani, politici, culturali, economici. E non avrebbe potuto essere una cosa senza essere l'altra». Sin dagli anni '30, quando abitava in via Bigli68 e poi in via Morone, a due passi dalla Comit, ma anche nella sede romana della Banca di piazza Santi Apostoli e nella sua fattoria toscana, a Nozzole, frequentava e riceveva fino a notte inoltrata scrittori, artisti, studiosi di varie discipline, politici. «Credo che nessun no e mai più i nostri odierni uomini politici, abbia avuto, negli anni in cui Mattioli esercitò il suo potere, una corte tanto vasta che comprendeva ogni campo della cultura e del lavoro»69. In realtà i termini «corte», «salotto», «cenacolo», variamente usati, corrispondono solo parzialmente. «Era in casa di Mattioli che la cultura antifascista aveva permanente accesso e diritto di presenza», disse Ugo La Malfa. L'elenco approssimativo dei frequentatori impressiona per il numero e la qualità dei personaggi che hanno incrociato don Raffaele nelle stanze fasciate di libri della sua abitazione, che si affaccia sul giardino di casa Manzoni, nello studio surriscaldato al secondo piano della Comit con l'ampia scrivania di noce e un tavolo accanto, ricolmo di statuine di asinelli in gesso, in osso, in terracotta, in argento. Gli scrittori, i critici, gli storici anzitutto: Riccardo Bacchelli, il più intimo, Eugenio Montale, Cario Emilio Gadda (ammirato della sapienza di Mattioli, cui dedicherà Verso la certosa e le Novelle dal Ducato in fiamme: «A Raffaele Mattioli, despota dei numeri veri, editore dei numeri e dei pensieri splendidi, in segno di ammirata gratitudine »), Umberto Saba, Arrigo Cajumi, Giovanni Titta Rosa, Gianfranco Contini, Luigi Salvatorelli, Mario Praz, Curzio Malaparte, Natalino Sapegno, Luigi Russo, Federico Chabod, Guido De Ruggero, Franco Venturi, Rosario Romeo, Alfredo Schiaffini, Pietro Pancrazi, Sergio Solmi, Gaetano Afeltra, Brunello Vigezzi, Gino Scarpa, Gianni Antonini, l'architetto Gigiotti Zanini, Giani Stuparich, Guido Piovene (in Viaggio in Italia descrive Mattioli «umanista, addottrinato, meridionale e arguto», che lavora in «un'atmosfera dotta, i funzionari che somigliano a bibliotecari»), Mario Soldati (che lo citerà nel romanzo L'architetto), Rossana Rossanda. Gli economisti e i politici: Piero Sraffa, Leo Valiani, Ugo La Malfa, Giovanni Malagodi, Giuseppe Saragat, Palmiro Togliatti, Franco Rodano, Bruno Visentini, Guido Carli, il conte Sforza, Vittorio Cini, Enrico Mattei, Anna Bonomi Bolchini, Giorgio Amendola, Edmond de Rotschild, Adolfo Tino, George Ball (già Segretario di Stato negli USA). Ha scrit¬to la figlia del banchiere, Letizia Fortini: «Veniva molta gente in casa, gente che è diventata importante o lo era già come Einaudi Croce Menichella Rockefeller Myrdal De Ruggero Chabod e tanti altri, ma io non prestavo molta attenzione a quei signori, ero troppo piccola». Anche giovani che sarebbero diventati famosi passavano per l'ufficio di piazza della Scala: Eugenio Scalfari, Marcello De Cecco, entrambi a lui devoti per l'aiuto generoso che ebbero dal banchiere negli studi e nella professione.
I classici erano le sue letture preferite. L'attività di banchiere non lo distraeva dalle cure editoriali e dai libri. Una volta, un cronista americano vedendolo con YAminta in mano, gli chiese: «Ma scusi, lei non è un banchiere?». Mattioli rispose: «Yes, incidentally». Citava volentieri Seneca, Dante, Manzoni, Baudelaire.
Tradusse sonetti di Shakespeare e il Kubla Khan di Coleridge. Recitava a memoria poesie del Ta-pù di Modesto Della Porta e interi brani della Figlia di Jorio e liriche dell'Alcyone. Compose poesie in vernacolo vastese che interpolava con spassosi incastri nel suo splendido italiano, appena increspato di «accento abruzzese», che non dimetteva nemmeno parlando le quattro lingue che conosceva (inglese, tedesco, francese, spagnolo).I moderni che stimava li riceveva in casa, gli altri li leggeva poco, non senza scherzarci su: «Quando Francoise Sagan, per sfruttare il successo di Bonjour tristesse, diede alle stampe Dans un jour, dans un an, sulla candida copertina, sotto il titolo, scrisse a lapis: «Dans un jour, dans un an, / Esperons que la Sagan / Soit si riche et satisfaite / Que sa piume enfin s'arrète», sprezzando l'errore di prosodia, per meglio esprimere il suo giudizioso parere».
Immerso religiosamente nel lavoro, aveva in uggia le ferie (soltanto una settimana a Nozzole, dove sostava anche Croce, di ritorno dalle sue vacanze in Piemonte): «Solo la gente che non sa vivere discrimina fra lavoro e hobby. Nessuna ora e tutte le ore sono subsecivae: l'ozio e il lavoro, a un certo livello, sono la stessa cosa. La torta è la torta, e l'uomo è l'uomo, non si può dividere». Francesco Cingano ha detto in un'intervista a quali discorsi contorti dovevano ricorrere i collaboratori diretti di Mattioli per annunciargli le loro ferie79. Un russo bianco poliglotta, fedelissimo di Mattioli, Valentino Bona, ex segretario di Cicerin, ministro degli Esteri dell'URSS fino al '29, era il parafulmine abituale delle sue sfuriate. Dovette fingersi sordo (o lo era già?) per andare in pensione dopo gli ottanta anni.
Poco prima di lasciare la Comit, il 5 marzo 1972, aveva deciso di realizzare un progetto che era stato al centro della sua meditazione per tanti anni come un impegno morale: l'«Associazione per lo studio della classe dirigente nell'Italia unita». Per «classe dirigente» bisognava intendere tutti coloro che «al governo o all'opposizione, nel parlamento o fuori di esso» potevano «contribuire, nelle forme e nei settori propri ad ognuno (politico, economico, militare, religioso, culturale, sindacale...) a quella che è, di periodo in periodo e ai diversi livelli, la 'gestione degli affari del paese'». Il consiglio direttivo (Giovanni Busino, Enrico Decleva, Giorgio Galli, Ettore Passerin d'Entrèves, Franco Rodano, Brunello Vigezzi e Mattioli), svolse alcune riunioni, approntò uno statuto, ma la sua morte sospese ogni cosa.
L'estro teatraleggiante, la cultura enciclopedica, lo scintillio dei paradossi, l'amica ironia rendevano smagliante la sua conversazione: «Forse non esiste un Eckerman, uno scriba che abbia raccolto il meglio dei giudizi dei bon mots dell'incomparabile conversatore che Mattioli fu... resta raro e quasi incredibile che le due componenti - l'economia e l'humanitas - si siano integrate senza produrre un monstrum, un uomo più ammirevole che accostabile».
Dall'amico Piero Sraffa, divenuto economista di fama universale, ricevette i «Quaderni del carcere» di Antonio Gramsci, che salvò conservandoli nelle casseforti della banca. L'episodio fu reso noto soltanto dopo la morte di Raffaele Mattioli, che avvenne il 27 luglio 1973, nella clinica Villa Margherita a Roma. Era vissuto un anno dopo il suo congedo dalla Comit, avvenuto per un colpo di mano partitocratico di «quattro mediocri democristiani», tra cui il ministro del Tesoro, Emilio Colombo, che avevano voluto «normalizzare una banca bensì pubblica ma da sempre riottosa alla genuflessione politica». In un modo brutalmente ricorrente nelle vicende italiche, «così come era stato per Menichella, dodici anni prima, la nuova classe politica riusciva finalmente a liberarsi di un uomo che le era stato fondamentalmente estraneo e che con la sua sola presenza ricordava una stagione rinascimentale che si credeva superata dai tempi nuovi e alla quale si guardava con degnazione e fastidio». Gli era subentrato come presidente il professor Gaetano Stammati, ragioniere generale dello Stato, che rimarrà per quattro anni in un ruolo marginale, finendo iscritto alla loggia «P2» di Piero Gelli. Mario Melloni, il geniale corsivista che si firmava Fortebraccio sull'Unità, scrisse: «Entra nella Comit il grigio burocrate, l'opaco commis e ne escono la fantasia e l'intelligenza». Quando Mattioli morì, «.. .la sua fine parve storicamente tempestiva, sentimentalmente precoce».
È stato Giovanni Malagodi ad accostare la figura multanime e proteiforme {«poly-tropos») di Mattioli al grande economista inglese, Lord John Maynard Keynes (fu Piero Sraffa a farli incontrare) e all'industriale e politico tedesco, Walter Rathenau, intellettuale raffinatissimo, propugnatore di un'Economia Nuova («neue Wirtshaft»), ministro della Ricostruzione e degli Esteri nella Repubblica di Weimar, assassinato il 24 giugno 1922, da cui Robert Musil trasse ispirazione per un personaggio del suo romanzo, L'uomo senza qualità. Raffaele Mattioli, protagonista assoluto in un'Italia priva di cultura industriale, «apparteneva all'ultima generazione intellettuale cresciuta nel culto del Risorgimento», di cui la Grande Guerra da lui affrontata era l'atto conclusivo. La sua formazione culturale derivava dal laicismo di pensatori come Silvio e Bertrando Spaventa e si nutriva dei classici dell'economia, da Marx a Ricardo. La visione lungimirante della finanza e l'amore per la storia della civiltà italiana scaturivano nella sua azione dalla coscienza di sentirsi un servitore dello Stato. Si definiva «l'ultimo dei moicani», «troppo intelligente per non capire che si considerava l'ultimo dei grandi borghesi di un mondo in via di trasformazione».
Pur avendo una tomba di famiglia al Monumentale di Milano, volle essere sepolto nel cimitero dell'Abbazia cistercense di Chiaravalle, nella tomba di Guglielmina di Boemia, santa e poi eretica, e, poiché quel cimitero era sconsacrato, fece fuoco e fiamme presso Bernardo Crippa, assessore democristiano ai cimiteri e dipendente Comit, per ottenere l'autorizzazione, superando le resistenze dei frati con donazioni cospicue. Questa sua ostinazione e il rito funebre che si tiene ogni 27 luglio a Chiaravalle con la messa in latino hanno ridato fiato alla leggenda di un Mattioli e di un Enrico Cuccia che avrebbero ordito un complotto giudaico-massonico contro la Chiesa cattolica e contro l'Opus Dei, con un riflesso editoriale negli autori neognostici e nichilisti dell'Adelphi. Mattioli massone dunque? «Non esiste uno straccio di documento a provarlo», ha scritto Giancarlo Galli, biografo equilibrato del banchiere abruzzese. La voce nacque dal best¬seller di Joseph Wechsberg, The Merchant Bankers, in cui Mattioli veniva inserito in un elenco di sette Grandi Famiglie di Gnomi della Finanza (Hambros, Barings, Rothschild, Warburg, Lehmann, Brothers, Hermann Abs e appunto Mattioli), legate da un patto di Secret Fraternity e questa notizia alimentò la favola di una loggia massonica internazionale. In realtà fu sempre un laico di «buona civiltà». «Una volta che l'arcivescovo Montini venne a impartire la benedizione pasquale agli edifici della Commerciale, Mattioli come padrone di casa assistette e al congedo ringraziò; ma il futuro Paolo VI: «No, - rispose - tocca a me ringraziare perché so il sacrificio che Le è costato». Provarono a chiamarlo «gnomo di Milano». «Rispose di sì, che la definizione poteva andare, ma nel senso delle mitologie nordiche; di spirito benevolo e sapiente che conosce il futuro, opera miracoli e custodisce i tesori». Mattioli comunque si sarebbe divertito con questi pasticci pettegoli, chiamandoli magari «cacate di capra», come fece con alcuni paragrafi del Trattato di economia politica di Ulisse Gobbi della Bocconi.
Per quarant'anni Raffaele Mattioli, pur lontano dai riflettori e quasi sotterraneamente, ha riempito da protagonista la scena economica, politica e culturale, con imprese geniali e innovatrici. Era prevedibile che la sua leggenda venisse rivisitata e messa in discussione non sempre per amore della verità, anche se il neorevisionismo alla moda non lo ha ancora preso di mira. Ma qualche segno maldestro comincia ad affiorare, per fortuna restituito a ciacola romanzesca. Dopo le critiche roventi di Cesare Merzagora - et pour cause -, ideologiche di Ruggero Guarirli, sussiegose del prof. Carlo M. Cipolla, inattendibili di Gracchuse fantasiose di Ettore Bernabei", un sorprendente attacco di sapore tardoprezzoliniano è arrivato nel febbraio '97 da un brillante economista, Sergio Ricossa, che, nel suo pamphlet, Manuale di sopravvivenza a uso degli Italiani onesti (Ediz. Rizzoli), ha infilato una serqua di contumelie all'indirizzo dei capi del Partito d'Azione, di Croce, Einaudi, Togliatti e di Raffaele Mattioli. Una «figura tipica di furbo», il cui motto era «non pisciare controvento», un «infelice terrorizzato di bagnarsi i pantaloni», finanziatore delle guerre del Duce, «furbo, ricco e spaventato, se la nostra ipotesi è buona». Non l'hanno trovata «buona» né Leo Valiani, né Gianfranco Galli. Per il primo Mattioli «era una persona estremamente onesta e molto competente», «era un dirigente d'azienda e doveva obbedire al governo», «è stato un patriota che ha fatto del bene all'Italia». Per l'altro «era un liberale keynesiano convinto della necessità di un intervento dello Stato nell'economia e servì il regime solo perché pensava che avrebbe potuto risolvere la crisi economica», «Un furbo? Diciamo che era una persona abile. Un gattopardo, appunto». Tra l'altro il Ricossa riferisce di un icastico commento su Mattioli di Aldo Ravelli, il più famoso agente di cambio di Milano: «Mattioli è il più gran ruffiano che io abbia conosciuto nella mia carriera». Ma lo stesso Ravelli aveva dichiarato a Gianfranco Galli: «Di Mattioli ho sempre apprezzato la dimensione umana. Tutto riconduceva agli uomini, grandi o deboli che fossero. Di ogni persona conosceva virtù e difetti, ma attraverso, come dire, un penetrare nel cuore di ciascuno. Perché la sua saggezza era immensa...». Per la sua biografia su Mattioli («Il gattopardo della Banca Commerciale Italiana»), l'unica organica finora sul banchiere abruzzese (integrabile con le «vite parallele» di Mattioli e Antonello Gerbi nel bel libro di Sandro Gerbi), Gianfranco Galli ha vissuto una curiosa vicenda, quasi un mistero buffo. Per ripubblicarla, essendo esaurita, ha dovuto ricorrere ad un altro editore, poiché il primo non era più disponibile. Pare che l'aver tratteggiato in modo documentato e convincente la grandezza del Mattioli «eretico», la sua indipendenza intellettuale e comportamentale, il rifiuto dell'omologazione, la versatilità «corsara», il tentativo di dotare l'Italia di una Grande Banca andando contro gli interessi esclusivi delle Grandi Famiglie del capitalismo italiano, abbia indispettito «parecchi esponenti del Piccolo mondo antico della Finanza». In «gran dispetto» il Galli dev''essere ancora tenuto se nell'opuscolo dedicato all'Archivio Storico (curato con passione da Francesca Pino) la pur piccola bibliografia ignora il suo libro.
Un abbozzo, anche se schematico, della biografia di un personaggio illustre comporta i rischi del panegirico, ma nel caso di don Raffaele l'adulazione è involontaria. Parlano infatti le sue opere destinate a durare nel tempo, il consenso di altri grandi, l'itinerario di banchiere e di organizzatore della cultura, suscettibili soltanto di conferma dalla paventata apertura degli archivi Comit nel 2015. Quando Silvio D'Arco Avalle scrive che, fra gli intellettuali italiani del Novecento, il nome di Mattioli sarà uno dei pochi che si salverà, non incide un epitàffio per un busto al Pincio o per una lapide di una nostrana Antologia di Spoon River, ma coglie il senso profondo .che della vita ebbe Mattioli, «in cui si incontravano e si accordavano la sua curiosità intellettuale estesa in ogni campo e la sua curiosità umana aperta a tutti gli incontri». Inaugurando l'anno accademico dell'Istituto Italiano di Studi Storici, il 18 novembre 1965, Mattioli disse: «La Vita è il grembo inesauribile di tutto ciò che si fa e di tutto ciò che si pensa. E proprio perché si fa concreta a volta a volta nelle azioni e nei concetti, nelle intuizioni e nelle volizioni del singolo, essa si garantisce costantemente contro ogni ipostasi e ogni divinizzazione, si mantiene individuale, contingente, effimera, amaramente umana».
La migliore definizione di Raffaele Mattioli fu egli stesso a darla, quando, commemorando Benedetto Croce, scolpì anche il suo autoritratto: «Non vi parlerò dunque di un morto, ma d'un vivo, un vivo che amava le liete compagnie la conversazione fra persone di spirito; che aveva sempre pronto un frizzo, un aneddoto da raccontare e di cui era il primo a divertirsi e a ridere; che, come il dottor Faust, solo tra gli uomini si sentiva completamente uomo, e socraticamente provava e riprovava la sua filosofia tra la gente di ogni rango, nella vita di ogni giorno».
Se la memoria degli uomini non si immiserisce in «letargo di talpe, abiezione/che funghisce su sé», sarà molto difficile abbattere quel «muro» che si chiama Raffaele Mattioli.